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Native Advertising: reinventare il pubbliredazionale e il product placement

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Si sente molto parlare di Native Advertising (o pubblicità nativa, se vogliamo). Cosa sia di preciso è abbastanza semplice da spiegare: la native advertising è quella forma di pubblicità che viene ospitata, in maniera più o meno esplicita, in punti (o posizionamenti) non immediatamente identificabili come pubblicitari. E’ totalmente amalgamata al contesto in cui viene inserita, ed assume la forma di un contenuto nativo, appunto.

Solo il 9% degli annunci pubblicitari online viene visto per più di un secondo. Non arrivano a 2 secondi il 96% degli annunci pubblicitari. Gli ami che possono essere “lanciati” sono pochi, e le piattaforme fanno il possibile per cercare di agganciare e mantenere l’attenzione dell’utente per qualche frazione di secondo in più. 

Ne sono esempi chiari i posizionamenti degli annunci pubblicitari su Facebook, Linkedin, Twitter, dove gli annunci pubblicitari si confondono con il normale news feed, ovvero il susseguirsi degli aggiornamenti provenienti dai propri contatti. Lo status di “sponsorizzato” è scritto, ma spesso non viene percepito immediatamente dall’utente.

Ed è giocando proprio sulla NON-immediata distinguibilità, che si ricava quella frazione di secondo importante per essere “agganciati” dal messaggio e auspicabilmente per far compiere l’azione richiesta dall’inserzionista.

Sono pseudo forme di native advertising anche quei posizionamenti su fonti autorevoli, come i quotidiani o le testate online, che posizionano banner laddove sono normalmente presenti articoli giornalistici correlati.

 

Della “banner blindeness”, la cecità da banner, se ne parla da anni: con il diffondersi di strumenti pubblicitari sempre più semplici da utilizzare anche per i piccoli inserzionisti, è aumentata a dismisura “l’offerta” di annunci e inserzioni. Anche ottimizzando al massimo il pubblico di destinazione delle campagne, l’esposizione ai messaggi promozionali rimane alta. L’utente, consciamente o inconsciamente, tende ad escludere dalla propria attenzione i posizionamenti, quelle le aree del display occupati normalmente dai banner pubblicitari, non vedendoli proprio. 

Ok, i banner non funzionano. Cosa funziona, allora?


Di strumenti pubblicitari per veicolare un determinato messaggio, per fortuna, ce ne sono diversi. Alcuni possono essere gestiti direttamente dall’azienda che ha un prodotto o servizio che vuole far conoscere (il content marketing, per esempio). Altri, invece, si basano sull’utilizzo soggetti esterni, che possano ospitare storie o informazioni sponsorizzate, ma che non si presenti con l’aspetto di un annuncio o di un banner.

Esistono forme diverse, ma sono tutte accomunabili sotto il cappello della “Native Advertising”.

Il product placement, forse la più antica forma di native advertising visuale, che ci accompagna nei film dalla notte dei tempi. E’ l’esempio emblematico di pubblicità nativa: “non ti dico di comprare un prodotto perché affermo che è bello o utile, ma te lo faccio vedere direttamente nel suo contesto di utilizzo.” 

I pubbliredazionali, una volta solo cartacei, erano stampati sulle testate giornalistiche, tra le pagine del giornale. Oggi esistono ancora in versione analogica, ma online vengono prodotti anche con strumenti nuovi (video, webinar, live streaming). Senza dimenticare i tradizionali servizi/blog post pubblicati sul dominio della testata di turno.

La Native Advertising rappresenta un territorio ancora da esplorare.

La tendenza si sta spostando sempre più verso la produzione di contenuti che sappiano coinvolgere il proprio pubblico di riferimento. La pubblicità d’immagine, autoreferenziale, se funziona (funzionava?) bene in tv, sul web “non attacca” in maniera proficua.

Il patto è: ti regalo un contenuto che tu, utente, riterrai utile/interessante/coinvolgente, in cambio di attenzione e considerazione.

Sono esempi di questo tipo le rubriche di cucina, in cui vengono condivisi trucchi e ricette, mentre vengono utilizzati prodotti brandizzati. Associando la bontà del piatto preparato, con l’utilizzo dell’ingrediente “segreto”.

Assistiamo anche a progetti interessanti, connubi tra influencer marketing e native adv. Personaggi con un pubblico già consolidato, in target rispetto al cliente ideale dell’azienda inserzionista, sviluppano un progetto “perfettamente nelle corde” di tutte le parti coinvolte. Un esempio che possiamo citare è il recente progetto sviluppato da Alitalia e un noto travel-blogger piemontese. Il risultato è un “prodotto”, una serie di video dalla Cina, che raccontano una storia, facendolo con lo stile dell’autore, ma andando a coinvolgere anche il pubblico ideale dell’azienda promotrice.

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